Povero corvo... Nella tradizione
letteraria non ha fatto quasi mai una figura anche soltanto passabile. Qualche eccezione
consolatoria in effetti esiste e l'abbiamo registrata, ma in generale
le sue penne scure e il suo vociare non propriamente gradevole lo
hanno reso oggetto di associazioni mentali poco edificanti, se non
di maledizioni vere e proprie.
Storie in letteratura che coinvolgono a vario titolo il nostro pennuto preferito ce ne sono in larga misura, e per questo contesto ci accontentiamo dell'adagio nel bene e nel male, purché se ne parli.
Storie in letteratura che coinvolgono a vario titolo il nostro pennuto preferito ce ne sono in larga misura, e per questo contesto ci accontentiamo dell'adagio nel bene e nel male, purché se ne parli.
Ecco una selezione di grandi classici letterari contenenti corvi; va da sé che pure nei casi in cui questi ultimi sono tacciati di cosacce brutte, vi consigliamo lettura e approfondimento: anche solo per dissentire sull'eventuale visione globale negativa sottesa, esprimere solidarietà ai nostri amati, e dare voce all'Orgoglio Torvo che – se siete arrivati fino a qua – innegabilmente vi contraddistingue.
Icona messinese del profeta Elia, XVIII secolo |
Alla fine Elia neanche
muore, tanto è poco ordinario il suo caso umano, ma viene rapito da
un carro infuocato condotto da cavalli che trascinano il profeta in
un turbine fino al cielo (2Re 2,11) – come una specie di Gesù in
ascensione o un Apollo perso nel sole.
Fra le mille e più avventure in cui è implicato questo impavido
personaggio ce n'è una che ci interessa da vicino:
all'inizio della sua carriera di rimbrottatore di malfattori, Elia se
ne va in eremitaggio forzato a vivere in mezzo alla natura
dissetandosi alle acque di un torrente. Qui viene sfamato da dei
fantastici corvi che, maestri della ristorazione pure in mezzo alla
carestia, gli garantiscono una dieta varia ed equilibrata a base di
pane e carne (1Re 17,3-6). Il tutto accade per intercessione e volere divini – e qui non
aggiungiamo altro per non essere blasfemi e non scivolare sulla facile
buccia di banana dell'autocelebrazione.
Esopo (VI sec. a.C.), Fedro (I sec.) e Jean de La Fontaine (XVII sec.), invece, al corvo gli hanno fatto fare tutti quanti una figura abbastanza barbina – una figura unica cumulativa, dato che di base raccontano la medesima vicenda.
Esopo (VI sec. a.C.), Fedro (I sec.) e Jean de La Fontaine (XVII sec.), invece, al corvo gli hanno fatto fare tutti quanti una figura abbastanza barbina – una figura unica cumulativa, dato che di base raccontano la medesima vicenda.
IL CORVO E LA VOLPE è una favola vecchia come il cucco, è stata narrata a
vario titolo da tutti i letterati citati di cui sopra. Come
si ricorderà, è la storiella di un corvo un po' tordo e parecchio
vanitoso: si lascia fregare un pezzo di formaggio da una volpe che lo
adula e lo invita a cantare per dimostrarle che la bellezza delle
penne corrisponde a un talento vocalico improbabilissimo.
Il corvo è di quelli a cui piace piacere – ego smisurato?, insicurezza? – e che si gongolano nelle sviolinate; spalanca il becco e gli cade il formaggio, prontamente afferrato dalla volpe, che si da alla fuga.
Giovanni Arpino – giornalista e scrittore del secolo scorso – ha persino inventato una coda alla favola, nella quale il corvo, oltre alla figuraccia, fa anche una brutta fine e ci lascia le penne per zampa della figlia della volpe.
Altre pagine, altro esimio letterato, e altro corvo soprattutto – che però, nel caso specifico che segue, c'entra in maniera alquanto ambigua.
Il corvo è di quelli a cui piace piacere – ego smisurato?, insicurezza? – e che si gongolano nelle sviolinate; spalanca il becco e gli cade il formaggio, prontamente afferrato dalla volpe, che si da alla fuga.
Giovanni Arpino – giornalista e scrittore del secolo scorso – ha persino inventato una coda alla favola, nella quale il corvo, oltre alla figuraccia, fa anche una brutta fine e ci lascia le penne per zampa della figlia della volpe.
Altre pagine, altro esimio letterato, e altro corvo soprattutto – che però, nel caso specifico che segue, c'entra in maniera alquanto ambigua.
Giovanni Boccaccio, quello del
Decamerone, a un certo punto della sua vita – in piena andropausa
pre-mortem, intorno al 1365 ad essere precisi – ripudia amore
cortese e storielle sconce in un sol colpo, prendendo la strada della
misoginia. Nel CORBACCIO butta giù un delirio violentissimo nel
quale immagina il defunto marito di una donna che ha rifilato un
due di picche a un tale disperatissimo – il tale dell'io narrante – mentre sciorina tutta una serie di invettive nei confronti della vedova,
volte a mostrare la vera natura odiosa, arcigna e lussuriosa non solo
di lei, ma di tutte le donne in stock.
Il tono di Boccaccio è fra il grottesco e l'acido, tanto che fra i filologi del caso c'è chi sospetta che qualche donna gliel'avesse negata, e lui medesimo stesse più o meno vagamente, autobiograficamente e definitivamente rosicando di brutto (come sapete la ciuccia inciuccinisce soprattutto chi ne soffre la carenza).
Quello che resta incerto è a quale corbaccio si riferisca il titolo della prosa: forse al corvo come allegoria gracchiante «simbolo funebre di maldicenza e aggressività», oppure alla vedova per «il color nero del [suo] vestimento». Comunque sia, nulla di simpatico.
Il tono di Boccaccio è fra il grottesco e l'acido, tanto che fra i filologi del caso c'è chi sospetta che qualche donna gliel'avesse negata, e lui medesimo stesse più o meno vagamente, autobiograficamente e definitivamente rosicando di brutto (come sapete la ciuccia inciuccinisce soprattutto chi ne soffre la carenza).
Quello che resta incerto è a quale corbaccio si riferisca il titolo della prosa: forse al corvo come allegoria gracchiante «simbolo funebre di maldicenza e aggressività», oppure alla vedova per «il color nero del [suo] vestimento». Comunque sia, nulla di simpatico.
Illustrazione di Édouard Manet |
Tutto ciò che cercava Poe con ossessione maniacale era Bellezza, completa e incontaminata – scevra da intenti sociali o didattici. La cercava nella musicalità dei suoni delle parole e nelle immagini misteriose ed evocative, e sicuramente fece centro nel 1845, quando conquistò la fama con la poesia THE RAVEN (Il Corvo), tradotta e commentata in Francia da mostri sacri e altrettanto maledetti e fraciconi come Mallarmé e Baudelaire.
La Bellezza di cui sopra qui comprendeva l'uccello del malaugurio («the bird of ill omen», così l'autore spiegava il senso del nostro amato pennuto), nonché profeta e insieme cosa del male, che incessantemente ripete il suo famoso nevermore (mai più!) in ricordo della defunta amata Lenore della finzione poetica.
ULTIMO VIENE IL CORVO è un bellissimo racconto del 1947 di Italo Calvino, nonché raccolta di brevi storie contenenti il racconto stesso pubblicata nel 1949. Nel nostro piccolo vi invitiamo a leggere per la tensione emotiva e la lucidità realista con cui l'autore riesce a cogliere l'assurdità di un omicidio – e, con esso, di qualunque assassinio – sullo sfondo della Resistenza e delle campagne del settentrione.
Il corvo anche qui presta le sue
penne in funzione di messaggero funesto. Calvino – e non dobbiamo
dirlo noi – è un maestro nel cogliere il carattere contemporaneo
ed eterno dei simboli della ritualità umana. Il suo è un corvo
solenne che appartiene a tutte le epoche della storia umana e delle sue
guerre stupide e innecessarie.
Illustrazione di Attilio Mussino |
L'ultimo corvetto letterario che citiamo qui appare in uno dei testi più conosciuti, diffusi e per questo motivo snaturati al mondo in codazzi di versioni varie ed avariate, ovvero il PINOCCHIO di Collodi.
All'inizio del XVI capitolo, il burattino viene recuperato impiccato a un albero grazie all'intervento della Fata Turchina, che lo sistema a letto privo di sensi e chiama al suo capezzale tre medici affinché lo recuperino. Uno dei tre è appunto un Corvo, che assolve le sue tradizionali funzioni di menagramo pure in questa situazione e spaccia paradossalmente il pezzo di legno Pinocchio per morto.
Alla prossima con altri corvi letterari...
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